La vita di città accresce il rischio di psicosi ed altri disturbi mentali?

 

 

GIOVANNA REZZONI & GIOVANNI ROSSI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIV – 12 novembre 2016.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: DISCUSSIONE]

 

Lo studio dell’influenza delle condizioni e dei luoghi in cui si svolge la vita quotidiana sullo sviluppo delle malattie mentali si giustifica sulla base di una nozione classica che riconosce, a parità di patrimonio genetico come nel caso dei gemelli monozigoti, il necessario intervento di fattori non genetici e convenzionalmente definiti ambientali perché un disturbo, nelle forme contemplate dalla nosografia psichiatrica, possa manifestarsi. Il ruolo dell’ambiente, secondo le conoscenze ormai classiche alla base della pratica clinica nel campo della psicopatologia, è ben diverso nei disturbi da stress, in cui le differenze individuali possono essere ridotte ad una questione di soglia e l’entità dei fattori stressanti risulta decisiva per la comparsa dei sintomi, rispetto a quello tutto da definire e da provare per lo sviluppo dei disturbi psicotici o, forse più propriamente, per la precipitazione dell’acuzie e lo scompenso di condizioni croniche.

Ogni anno si assiste alla pubblicazione di un gran numero di studi realizzati secondo la metodologia epidemiologica che propone l’associazione fra schizofrenia ed elementi ambientali presentati quali “fattori di rischio”. Naturalmente il termine “rischio” deve intendersi nel valore semantico che il vocabolo inglese risk ha nel gergo tecnico dell’epidemiologia statistica, ossia “incremento di probabilità”, e non nel senso italiano comune di “esposizione ad un pericolo”. Nella massima parte dei casi questi studi, pur ben condotti e formalmente probanti perché eseguiti con correttezza metodologica su campioni statisticamente significativi, sono inconcludenti perché non concepiti in modo da provare o escludere l’associazione fra un particolare elemento ed uno specifico processo fisiopatologico[1].

Di studi di questo genere, accettabili come filtro di partenza per lo sviluppo di progetti più meditati ed aderenti alle conoscenze biomediche attuali, ne basterebbe una decina l’anno e non sembra vi siano giustificazioni ragionevoli per la pletora attuale. Si sente il bisogno di una ricerca che si impegni nel cercare di più i nessi di causalità con ogni metodo e in ogni modo.

Per anni, ad esempio, questo modo di porre in relazione probabilistica ambiente e salute mentale, ha associato la vita di città ad un “accresciuto rischio” di schizofrenia, inteso nel senso più sopra specificato, ma solo di recente sono stati compiuti alcuni sforzi per comprendere il perché di questa associazione. In altri termini, solo da poco si è cercato di identificare i fattori ambientali che potrebbero avere un ruolo, ravvisando in elementi del contesto sociale, come disuguaglianze e isolamento, ed elementi dell’ambiente fisico, quali inquinamento e rumori, dei possibili candidati. E ancora scarsa attenzione si dedica alla verifica della possibilità che persone predisposte o portatrici di un endofenotipo cerebrale particolare possano essere maggiormente concentrate nelle città o far parte di flussi di inurbamento.

Qui di seguito discuteremo l’influenza della vita urbana sulla salute mentale prendendo le mosse da due studi recenti e dalla loro presentazione da parte di Diana Kwon[2]. Il primo dei due studi ha il merito di indagare l’età evolutiva, a differenza della quasi totalità dei lavori di questo settore che è condotta sugli adulti; il secondo ha il pregio di valutare influenze genetiche ed ambientali su un numero eccezionalmente elevato di persone.

Helen Fisher, psichiatra del King’s College London, Candice Odgers, psicologa della Duke University, e colleghi hanno realizzato nel Regno Unito uno studio di osservazione longitudinale di 2.232 gemelli all’età di 5 e 12 anni; la metà del campione di gemelli, in entrambe le età del rilievo, viveva in città. La presenza di sintomi psicotici è stata accertata mediante interviste dei gemelli dodicenni volte ad accertare se avessero fatto esperienza di allucinazioni o deliri.

Secondo l’analisi dei dati rilevati risultava che vivere in città raddoppia all’incirca la probabilità di sintomi psicotici all’età di 12 anni e che i maggiori fattori di rischio erano rappresentati dalla bassa coesione sociale, costituita dalla mancanza di vicinanza relazionale e supporto psicologico da parte delle persone che vivono nella stessa area, e dalla possibilità di assistere a dei reati. Fisher, Odgers e colleghi affermano che, sebbene la maggior parte dei ragazzi che presenta sintomi psicotici a 12 anni non diventerà schizofrenica, una parte lo sarà e la quota rimanente di piccoli psicotici potrà andare incontro ad una vasta gamma di disturbi psichiatrici dalla depressione, al PTSD, all’abuso di sostanze psicotrope.

Crediamo che sia necessario uscire da un equivoco: la schizofrenia, correttamente intesa e diagnosticata, non è una malattia mentale che si possa evitare vivendo in campagna o in altri ambienti ecologici naturali[3], se si è portatori di uno specifico endofenotipo cerebrale responsabile delle manifestazioni sintomatiche. È invece altamente probabile che vi sia un tasso considerevole di erronee diagnosi di psicosi per numerosi motivi che sarebbe lungo discutere in dettaglio, ma che possiamo sintetizzare come difetto di formazione o di esperienza guidata alla diagnosi differenziale. Qui ci limitiamo a ricordare che le illusioni, sperimentate come distorte percezioni in condizioni di fisiologica alterazione dello stato di coscienza, sono spesso scambiate per allucinazioni (percezioni in assenza di oggetto); e che le convinzioni erronee e i loro sviluppi, protette da una emotiva tendenza ad imporli e non discuterli, possono essere scambiate per deliri.

La conoscenza che consente di accertare correttamente questi sintomi non si acquisisce dalla lettura di esposizioni che spesso non vanno molto oltre quella del DSM o l’enunciazione del fondamento teorico degli strumenti tecnici di rilevazione (test, checklist, ecc.), ma richiede l’apprendimento attraverso un’esperienza guidata da un docente di psichiatria realmente esperto di psicotici e psicosi. A questo proposito, la deriva da tempo in atto nella psichiatria americana e da un tempo più breve in una parte della psichiatria di casa nostra, ha portato ad un tale numero di “diagnosi facili” di psicosi da aver modificato la concezione stessa del disturbo psicotico.

Tornando all’accertamento di sintomi psicotici mediante colloqui con i ragazzi dodicenni del campione di gemelli studiato da Fisher e colleghi, si vuole precisare per il lettore non psichiatra che accertare un delirio se non vi si assiste è molto difficile, soprattutto in età evolutiva. Le migliori scuole italiane di specializzazione in psichiatria programmavano l’insegnamento, mediante l’esame del paziente, della diagnosi di delirio attuale, distinta dall’uso attuale, da parte di un paziente non in preda a delirio, di tematiche deliranti sviluppate in precedenza. L’accertamento di episodi deliranti pregressi in un paziente che attualmente non delira e che non si è conosciuto e studiato in precedenza da tutti i punti di vista, incluso il rapporto fra i modi del suo pensiero e l’uso particolare e personale della lingua nelle differenti circostanze e condizioni della relazione, presenta molti problemi. Il delirio propriamente inteso è uno stato di produzione psichica in cui sono alterate due facoltà, la critica e il giudizio, normalmente esercitate attraverso gli stessi processi cognitivi della coscienza dichiarativa impiegati nella comunicazione verbale.

Commentando il lavoro di Fisher e colleghi, Diana Kwon si esprime esattamente con queste parole: “Complicating the matter, schizofrenia is a highly heritable disorder, meaning genetic factors may also contribute”. Ma come si fa a dire che “disturbo altamente ereditabile” vuol dire che “fattori genetici possono anche contribuire”? “Altamente ereditabile” vuol dire quanto ormai si sa da tempo: concordanza intorno al 60% fra gemelli monozigoti, aumento di probabilità superiore al 10% per gli altri parenti di primo grado, 3% per il secondo grado e totale assenza di aumento di rischio attraverso l’adozione; ossia, non sono gli stili psicologici familiari trasmessi con la vicinanza identificativa e l’educazione diretta e indiretta, ma i geni a conferire la predisposizione[4]. La genetica della schizofrenia è complessa, ma ormai si conoscono molti aspetti di questo ambito di studi, come è possibile riscontrare leggendo le numerose recensioni di studi recenti che compaiono nelle nostre “Note e Notizie”.

L’importanza della genetica è ben presente agli autori del secondo studio, guidato da un team dell’Università di Oxford e pubblicato sulla rivista Translational Psychiatry, che ha valutato influenze genetiche e ambientali in 3 differenti insiemi di cittadini svedesi: più di due milioni di fratelli, 1355 coppie di gemelli e dati di genetica molecolare raccolti dal sangue di un altro gruppo di gemelli. È emerso che il rischio di vivere in un quartiere a basso grado di supporto sociale era ereditabile ed associato ad un accresciuto rischio genetico di schizofrenia. Gli autori dello studio sostengono che precedenti lavori abbiano fallito nel rilevare questi nessi così bene evidenti su questi grandi numeri.

In conclusione, riteniamo di poter affermare che il problema principale non consiste nel trovare equilibrio, come sostiene Diana Kwon, fra l’apprezzamento di fattori genetici e ambientali nel definire un generico rischio per la salute mentale dato dalla vita di città, ma nella realizzazione di studi che distinguano, sulla base delle nozioni già acquisite, fra i vari tipi di disturbi, che cerchino di indagare i nessi fra specifici fattori ambientali e probabili processi eziopatogenetici o fisiopatologici innescati, precipitati o peggiorati da tali fattori.

 

Gli autori della nota ringraziano la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invitano alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni & Giovanni Rossi

BM&L-12 novembre 2016

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Secondo quanto si fa nel campo degli studi biologici che indagano, ad esempio, il nesso fra carenza di cure materne e stato di metilazione di geni che condiziona un pattern di espressione tipico dell’ansia e della depressione.

[2] Diana Kwon, Does City Life Pose a Risk to Mental Health? Exploring the link between urban living and psychosis. Scientific American Mind 27 (5): 13, Sept/October 2016.

[3] Esistono numerosi e significativi studi che in passato hanno dimostrato la transculturalità delle psicosi e il loro apparire là dove non si conoscono quasi i disturbi da stress e quelli del comportamento alimentare, quali l’anoressia nervosa e la bulimia. Uno psichiatra italiano, Guelfo Margherita, fece parte di una spedizione antropologica che studiò la malattia mentale in un atollo corallino, dove furono documentate forme di schizofrenia quali quelle presenti nei paesi del mondo più evoluto.

[4] Coyle J. T. & Konopaske G. T., The Neurochemistry of Schizophrenia, in Basic Neurochemistry (Brady, Siegel, ecc.), p. 1001, AP Elsevier, 2012.